La sapa può essere considerata uno sciroppo dolcissimo, ha un colore molto scuro ed intenso.
In origine veniva utilizzato come dolcificante, come sostituto dello zucchero che era difficile da reperire.

I bambini aspettavano la prima neve, questa poi veniva messa all’interno in un bicchiere con un poco di sapa per creare una granita, gli anziani invece la mescolavano con l’acqua per dissetarsi durante i lavori in campagna.

Spesso veniva utilizzata come condimento balsamico. Ludovico Ariosto  lo mescolava con le rape.

Viene utilizzata come ripieno per i dolci come ad esempio per i cavallucci marchigiani.
Ogni anno viene realizzata la Sagra del Sapa a Rosora, una piccola frazione che si trova nel comune di Ascoli Piceno.

Ora illustriamo gli ingredienti che ci occorrono per ottenere ½ chilo di sapa: 1 kg di uva ben matura, 100 gr di miele millefiori, 1 bicchiere di acqua.

Passiamo al procedimento: come primo passaggio lavate e sgranate l’uva, poi ponetela in una pentola insieme a ½ bicchiere d’acqua e lasciatela sul fuoco basso, fate cuocere il tutto fino a che l’uva non sarà ben cotta e sfatta.

Successivamente con un passaverdure passate il composto che è stato creato precedentemente, così verranno eliminate le bucce e i semini.

Rimettete il composto in una pentola ed aggiungeteci il miele.
Mescolate e fate cuocere a fuoco basso per 2 ore e se si forma la schiuma eliminatela con una schiumarola.

Passate le 2 ore, coprite con un coperchio e spegnete il fuoco. Ora dovrà riposare fino al giorno seguente.

Il giorno dopo mescolate il tutto e aggiungete ½ bicchiere d’acqua e rimettete il tutto a fuoco basso. Lasciatelo cuocere per circa un’ora e quando avrà la consistenza di una marmellata e un colore scuro è pronta.

Travasatela in dei vasetti puliti, chiudeteli con il tappo e metteteli a testa in giù fino al raffreddamento per fare il sottovuoto.

(Fonte testo: Testi a cura di Ferruccio Luciani, “I prodotti tradizionali della Regione Marche”, pdf,  Assessorato all’agricoltura, alimentazione e pesca, regione Marche, 2006. Pagina 19)